Non bastano gli innumerevoli limiti che il contratto co.co.pro. impone per sua stessa natura, a partire dalla precarietà per arrivare all’impossibilità di vedersi erogato un mutuo, un finanziamento e persino, spesso, un contratto d’affitto, ci si mette anche il compenso, scandalosamente penalizzante, soprattutto quando si tratta di donne e giovani.
Secondo un recente studio dell’Isfol, l’Istituto per lo sviluppo della formazione professionale dei lavoratori, che dipende dal ministero del Lavoro, si parte da una differenza di 5mila euro tra gli uomini che arriva addirittura a 6.800 euro se si mettono a confronto le retribuzioni medie annue di una lavoratrice dipendente e di una collaboratrice a progetto. Insomma, a far le spese di un contratto che dovrebbe immettere i giovani nel mondo del lavoro per poi trasformarsi, dopo uno, due, massimo tre rinnovi, in un contratto a tempo determinato o indeterminato, con il raggiungimento di un certo grado di professionalità, sono come spesso accade in Italia donne e giovani.
Nella fascia d’età sotto i 24 anni infatti il gap salariale tra un parasubordinato e un occupato dipendente tocca gli 8.221 euro (vale a dire la differenza tra gli 11.400 euro medi annui di un dipendente e i 3.179 euro di un co.co.pro o co.co.co.).
Pare incredibile ma è vero. Eppure le donne hanno in genere tassi di istruzione più elevati degli uomini ma sul fronte salariale continuano a subire una forte disparità di genere, siano esse precarie o dipendenti.
Nel primo caso il gap di stipendio è di circa la metà rispetto a quanto percepito da un collega parasubordinato, 7.420 euro contro 12.735 euro. Mentre nel confronto con la busta paga di un dipendente la differenza di stipendio è di circa 3.600 euro (a tutto svantaggio della collega donna).
Da qui l’allarme lanciato dall’Isfol, perché i collaboratori a progetto, in Italia sono 676mila (dato 2010), a cui vanno aggiunti i circa 50mila collaboratori coordinati e continuativi che ci sono nella Pubblica amministrazione, e hanno un reddito medio annuo di 9.885 euro. Contro i 16.290 euro di busta paga media l’anno degli oltre 17 milioni di occupati dipendenti.
Complessivamente i lavoratori parasubordinati in Italia sono un milione e 442mila unità e il 46,9% sono co.co.pro. Il 35,1% dei collaboratori a progetto ha un’età inferiore ai 30 anni e il 28,7% tra i 30 e 39 anni. L’84,2% dei co.co.pro. è caratterizzato poi da un regime contributivo esclusivo (non ha quindi un’altra occupazione): sono 569mila lavoratori il cui reddito medio scende a 8.500 euro l’anno. Mentre la retribuzione di un co.co.pro. e un co.co.co. cresce con l’età e arriva a superare quella di un dipendente solo nella fascia d’età superiore ai 60 anni (a fine carriera, cioè) quando i redditi medi annuali ammontano a 19.797 euro e 19.462 euro per un dipendente). In più, secondo una recente indagine Isfol-Plus sul grado di subordinazione della prestazione lavorativa resa dai parasubordinati, oltre il 70% dei collaboratori è tenuto a garantire la presenza presso la sede di lavoro, il 67% ha concordato un orario giornaliero con il datore e il 71% utilizza, nello svolgimento della prestazione, mezzi e strumenti del datore di lavoro.
Insomma pare proprio di capire che se un sistema parte già con una cattiva flessibilità in entrata e durante il suo percorso non immette elementi positivi finirà, con grande probabilità, per favorire la segregazione orizzontale e verticale e aumentare il gap di partecipazione al mercato del lavoro tra uomini e donne, limitando la continuità lavorativa e le opportunità di carriera.