Che le aziende venete emigrino in Slovenia o in Carinzia non è una novità. Nei primi anni novanta le aziende italiane presenti nella provincia di Timissoara, in Romania, erano milleduecento con a seguito circa diecimila italiani e molti di questi erano veneti e veronesi. Timissoara veniva chiamata, infatti, “l’ottava provincia veneta”. Allora si delocalizzava per i costi del lavoro. Si diceva, infatti, che in Romania la manodopera costasse un decimo di quella italiana e si spostavano principalmente le aziende che realizzavano prodotti di basso valore aggiunto, sui quali il costo del lavoro aveva una forte incidenza. In questo contesto molte aziende veronesi dei settori tessile e calzaturiero presero la strada per Timissoara. Oggi, dopo circa trent’anni, la situazione è mutata anche in Romania, nelle aziende tessili, quelle rimaste perché non trasferite in Cina o in India, la manodopera proviene dal sud est asiatico, quella Rumena pare non sia più competitiva.
L’allarme lanciato recentemente sulla delocalizzazione d’imprese italiane in Slovenia, Carinzia e Svizzera pare segnale della storia che si ripete, ma questa volta le motivazioni che spingono le imprese ad andare oltre confine sono diverse. Oggi il peso della pressione fiscale è insopportabile, il regime burocratico asfissiante, le infrastrutture di trasporto e scambio merci sono inadeguate, l’energia elettrica è circa il 30% superiore alla media europea e, se non bastasse, nei nuovi Paesi le imprese trovano personale qualificato in un rapporto, sinergico e soddisfacente, tra scuola e lavoro.
Bisogna rendersi conto che, a qualche centinaia di chilometri dal mitico Nord-est, ci sono Stati, magari piccoli, con politiche industriali e di sviluppo orientate alla crescita nel rispetto delle leggi, dove la pressione fiscale è minore e la tasse le pagano tutti, dando la possibilità allo Stato di investire in attività di sviluppo.
Perché in Italia non ci si riesce? Perché qui comandano corruzione, evasione fiscale e malcostume? Eppure, solo qualche decennio fa, abbiamo creato un sistema di sviluppo, specie nel Nord-est, che ha fatto scuola al mondo industrializzato.
La metamorfosi avuta nel nostro Paese è da addebitare, non solo a scelte d’investimento sbagliate, ma, all’aver interrotto quell’indispensabile rapporto di fiducia tra chi governa e il popolo, per interessi illegittimi e individuali. Perdere la fiducia ha come conseguenza diretta la perdita della speranza nel futuro. Dobbiamo ripartire per rinsaldare il sottile filo che unisce l’etica all’economia per ricostruire un tessuto sociale, produttivo che abbia come obiettivo la dignità delle persone, il bene comune.