Fonderia Biasi in liquidazione


Un altro pezzo di Verona al macero.

La Fonderia Biasi è in liquidazione e, pare, senza alcuna prospettiva né per la ripresa produttiva né per le 130 persone che dovranno fare i conti con la cassa integrazione e con l’angoscia di un futuro incerto. E pensare che vent’anni fa lavorare alla Biasi rappresentava la garanzia di appartenere ad un gruppo industriale solido. Negli anni alcuni operai si sono ammalati di silicosi, altri di asbestosi (amianto), ma per chi lavora in certe fonderie sembra quasi fatale che di qualche malattia ci si debba ammalare e si pensa, sbagliando, che anche per questo si viene pagati. Lo spirito d’appartenenza alla Biasi è sempre stato cosi alto che, nel momento in cui, qualche anno fa, si è dovuto scegliere se andare in cassa integrazione o passare a un nuovo acquirente, i lavoratori hanno accettato di ridursi lo stipendio mediamente di 200 euro al mese e alla contrattazione aziendale. Cosa avrebbero dovuto fare di più per dimostrare il loro attaccamento all’impresa? La Biasi, negli anni, li ha traditi quando ha deciso che i guadagni derivanti dal loro lavoro non andavano più investiti in azienda per l’innovazione produttiva e lasciando che l’impresa a poco a poco perdesse quell’appel che l’aveva resa grande e competitiva negli anni della crescita.

In un Paese in cui viene a mancare il rapporto di fiducia tra classe politica e popolo appaiono impossibili anche tutte le azioni necessarie per tentare di uscire dalla crisi. La mancanza di fiducia non dipende solo dall’abbandono da parte dei politici di quell’etica indispensabile per gestire interessi a cui si è stati delegati. La fiducia è venuta meno anche nei confronti della classe imprenditoriale, che per anni ha contribuito a far divenire importante l’Italia e che dagli anni ottanta ha dimenticato il suo ruolo non marginale di soggetto sociale. Una classe di imprenditori familiaristi che spesso non ha saputo fare quel salto necessario per passare ad una gestione manageriale con una visione di sviluppo e competenze che un mercato globale richiede. E anche nel caso in cui la gestione fosse stata affidata ai manager lo sviluppo dell’impresa avveniva e avviene all’interno della stessa e con la stessa, considerando il contesto esterno unicamente come elemento di disturbo e di concorrenza e non come opportunità  di alleanze per andare oltre a quell’esperienza positiva, ma non attuale, che sono stati i distretti.

Leggevo in questi giorni i dati riportati dalla Fondazione nord-est sull’agroalimentare nel Veneto: le aziende che hanno investito in innovazione e ricerca sono state solo quelle con più di cinquanta dipendenti e tra queste quelle che hanno aumentato il fatturato sono proprio quelle che hanno investito in innovazione. Insomma solo chi investe aumenta il fatturato e si mantiene competitivo. Ma troppi imprenditori negli ultimi due decenni hanno alleggerito il rischio investendo solo in finanza, immobili, autostrade o reti telefoniche che davano sì sicurezza di reddito ma non di lavoro. Per fortuna non tutti gli imprenditori si sono comportati allo stesso modo, molti hanno continuato ad investire nell’impresa e a credere che il lavoro è la base del vivere di una comunità. E queste imprese stanno superando la crisi meglio di altre, anzi alcune durante la crisi hanno anche aumentato i fatturati. Prof. Fornero ci auguriamo tutti che si possa modificare il mercato del lavoro per renderlo più moderno, ma si ricordi d’intervenire anche nei confronti di quegli imprenditori che ritengono che a loro tutto sia dovuto senza sentirsi partecipi del destino del Paese.


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