Toglierlo, lasciarlo o riformarlo per la seconda volta? Cosa fare del tanto chiacchierato art.18, contenuto nella legge 300/1970, il cosiddetto statuto dei lavoratori?
Non c’è dubbio alcuno che per molti l’art. 18 rappresenti un simbolo e i simboli sono importanti.
L’art. 18 identifica infatti una conquista sindacale degli anni settanta, contro l’uso superficiale e spesso discriminatorio del licenziamento. Rappresenta un punto d’arrivo, raggiunto con lotte ideologiche e di classe, in un tempo in cui i diritti dei lavoratori erano spesso non riconosciuti o non rispettati. Un tempo in cui, almeno nella maggioranza dei casi, i rapporti di lavoro erano a tempo indeterminato. Il lavoratore entrava in azienda ancora ragazzino, con la qualifica di apprendista e il rapporto lavorativo cessava solo quando andava in pensione. L’azienda rappresentava una garanzia di continuità, di formazione e partecipava, spesso, al progetto di vita del lavoratore arrivando a garantire alle volte persino l’abitazione. Il tutto in cambio di dedizione e disponibilità completa al lavoro. Lo spirito di appartenenza all’impresa e alla propria qualifica professionale, infatti, identificava e caratterizzava il lavoratore. Questo sistema, per molti anni, ha retto portando benefici per tutti. Le imprese hanno così aumentato i profitti, li hanno reinvestiti in azienda e hanno creato nuovi posti di lavoro, permettendo ai dipendenti di accrescere il proprio benessere, mentre la società complessivamente progrediva.
In poco però tutto è cambiato. Nel 2013 i nuovi rapporti di lavoro a tempo indeterminato, in provincia di Verona, sono stati solo il 17%. In altri termini, nel 2013 su cento nuove assunzioni l’83% sono state con contratti precari. Altro che art.18!
In questi ultimi anni l’utilizzo improprio ed esagerato delle più svariate tipologie contrattuali ha reso il lavoro precario, mal retribuito e incostante, facilitando, purtroppo, le molte aziende che non puntano ad investire o innovare.
Se l’intendimento del Governo, come si apprende di recente, è togliere tutte le tipologie contrattuali ora esistenti per lasciarne solo due, lavoratori dipendenti e lavoratori autonomi, ritengo sia un percorso da condividere. Difendere l’articolo 18, in un mercato del lavoro dove il precariato è la forma primaria d’occupazione, oltre all’impopolarità della scelta, denota una mancanza d’attenzione per un mondo del lavoro più inclusivo.
Serve un mercato che sappia far incontrare al meglio domanda e offerta.
Servono percorsi professionalizzanti, veri, sia per chi perde il lavoro, sia per chi vuole cambiarlo e accrescere le proprie conoscenze. Chi resta disoccupato, ad oggi, scivola nel baratro della disperazione, accompagnato per un breve periodo dall’indennità di disoccupazione, senza un percorso che consenta d’incontrare un nuova occasione di lavoro.
Ecco, il job acts sarà una vera riforma del mercato del lavoro se saprà trasformare la tragedia della perdita del posto di lavoro in un’opportunità sia per il lavoratore, che cambiando avrà l’occasione di formarsi e accrescere le proprie competenze, sia per l’impresa che andrà ad assumere un collaboratore qualificato ed esperto. Se invece il job acts si ridurrà alla riforma dell’art.18, per fare un favore alla troika, è meglio che il Governo cambi idea.
A mio parere il Presidente del Consiglio non sbaglia sul merito ma sul metodo.
Non è pensabile riformare il mercato del lavoro rifiutando il confronto, non solo con le parti sociali, ma anche con le minoranze del parlamento. La democrazia non è fatta di decisioni unilaterali prese da chi si ritiene unto dalla verità. La democrazia è dialogo, confronto e sintesi. In questi ultimi mesi si ha l’impressione che si parta dalla sintesi e li ci si fermi.
Massimo Castellani, segretario generale Cisl Verona